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Suono ma nessuno apre

Suono ma nessuno apre

A cura di Matteo Fabbri

A bordo di una navicella con la musica giusta per i viaggi per galassie lontane

Tra le tante canzoni, ho pensato subito a “Contact”, ultima traccia del pluripremiato album dei Daft Punk, “Random Access Memories” del 2013, che contiene proprio una registrazione reale concessa dalla stessa NASA direttamente dalla missione “Apollo 17

Il recente viaggio in orbita del miliardario Richard Branson e questa gara nello spazio tra magnati che comprende anche Jeff Bezos e Elon Musk, mi ha fatto tornare in mente un episodio di qualche mese fa del mio podcast “Suono Ma Nessuno Apre” in cui immaginavamo di essere a bordo di una navicella in partenza da Cape Canaveral con la musica giusta per i viaggi attraverso stelle e galassie lontane. E cosa c'entrano i viaggi nello spazio con la musica? Beh, i viaggi nello spazio hanno affascinato tante opere d'arte perché ci sono poche cose misteriose e intangibili come l'universo. Rivolgere il naso all'insù risveglia da sempre le fantasie di molti musicisti provenienti da estrazioni ed epoche diverse che hanno tratto ispirazione ammirando il cielo e sognando l'infinito. Del resto la musica può essere scienza ma anche emozione, esattamente come l'osservazione dello spazio infinito con le sue stelle e i suoi mondi lontani ancora inesplorati.

Tra le tante canzoni, ho pensato subito a “Contact”, ultima traccia del pluripremiato album dei Daft Punk, “Random Access Memories” del 2013, che contiene proprio una registrazione reale concessa dalla stessa NASA direttamente dalla missione “Apollo 17”, in cui il comandante descrive un oggetto luminoso non meglio identificato, e conclude il messaggio col più classico dei “c'è qualcosa là fuori”.
Rimanendo con lo sguardo rivolto alla luna, citerei dei connazionali dei Daft Punk che usavano l'elettronica in un modo diverso: in particolare era il 1998 e, dopo anni di dominio grunge, britpop e dance tamarra, il cuore pulsante della nuova musica elettronica diventa la Francia che sforna vari artisti che si contraddistingueranno per il loro tocco raffinato, il cosiddetto French Touch. Tra questi ci sono gli Air, un duo che pubblica un disco la cui copertina fa già presagire il contenuto: in essa infatti sono raffigurati i due ragazzi che si muovono come fossero in assenza di gravità intenti a osservare uno shuttle stilizzato, mentre all'interno dell'album si può apprezzare un cielo stellato. In pratica si tratta di un viaggio sonoro fatto di atmosfere sognanti, proprio come immaginiamo sia un viaggio sulla luna. Il disco infatti lo intitolano “Moon Safari”.

Diciamo che ci sono approcci di vario genere al tema odierno: c'è chi ha usato gli astri per descrivere un proprio viaggio interiore, c'è chi invece nell'universo ha ambientato le proprie composizioni, mettendosi nei panni di un astronauta, o di un uomo dello spazio, o ancora di una creatura marziana. C'è chi, infine, ha usato lo spazio come metafora per parlare di tutt'altro, come fecero i R.E.M. con “Man On The Moon”, brano dedicato al comico Andy Kaufman, del quale circola la leggenda metropolitana per cui in realtà non sia morto veramente. Qui l'uomo sulla luna viene usato come metafora per riferirsi a qualcosa che non esiste, che non è accaduto, basandosi sulla teoria secondo cui la missione spaziale che ha portato per la prima volta l'uomo sulla luna nel 1969 sia tutta una montatura mediatica. Come a dire “se hai creduto che un uomo sia arrivato sulla luna, allora puoi berti proprio tutto”.
Abbiamo poi i Police che nel 1979 tirano fuori dal cilindro “Walking On The Moon”, uno dei loro brani più amati, in cui lo spazio è un pretesto per parlare d'amore, delle cosiddette farfalle nello stomaco, di quella sensazione di camminare per aria, come se non sentissi il tuo peso, come non ci fosse la gravità, come sul suolo lunare, insomma. Il videoclip del pezzo, inoltre, è stato girato alla NASA, e i membri suonano in mezzo a diversi modelli di astronavi.

Facendo una capatina in Italia troviamo “Figli Delle Stelle” di Alan Sorrenti. Sì, è vero, i figli delle stelle descritti sono i giovani che vivevano la notte. Insomma, un testo leggero ma che in realtà conteneva un messaggio e cioè che noi umani deriviamo dalle stelle, siamo formati degli stessi elementi di cui sono formate le stelle.  E non è certo l'unico brano italiano che si ispira al cielo stellato e ai fenomeni dell'universo. Tanti artisti nostrani hanno preso spunto dai fenomeni celesti, primo fra tutti Franco Battiato che al tema della vastità dell'universo ha dedicato varie composizioni all'interno di una carriera costellata di immagini e citazioni scientifiche, ma allo stesso tempo sempre molto orecchiabili, riuscendo a unire la musica popolare a quella più d'avanguardia. Un esempio è “Segnali Di Vita” dal capolavoro “La Voce Del Padrone”, e ancora di più nel suo album del 1985, “Mondi Lontanissimi”, in cui emergono perle come “No Time No Space” e “Via Lattea”.

Tornando ai grandi nomi del rock, come non pensare ai Pink Floyd con la loro “Eclipse”, brano conclusivo da “The Dark Side Of The Moon”, in cui i protagonisti sono il sole e la luna in una marcia maestosa che si conclude in maniera pessimistica, ovvero: tutto ciò che esiste nel mondo è perfetto perché illuminato dal sole, ma allo stesso tempo è rovinato dall'uomo, come se l'uomo fosse la luna che nasconde il sole in un'eclissi. C'è anche un altro pezzo rock dello stesso anno, 1972, in cui si fa un vero e proprio viaggio immaginario tra i pianeti, ma qui l'atmosfera è più festaiola e il testo meno serio. Si tratta di una cavalcata hard-rock dura, poderosa, una sorta di corsa sfrenata a briglie sciolte nel sistema solare a colpi di riff taglienti di chitarra elettrica e di una sana voglia di svago e di bagordi, in compagnia di cinque buontemponi come i Deep Purple con la loro “Space Truckin'”.

Ci sarebbero tantissimi altri esempi di “suoni dallo spazio”: da Moby che, travestito da astronauta nella sua “We're All Made Of Stars”, utilizza il tema astronomico come pretesto per parlare di unione tra le persone perchè, appunto, siamo tutti formati dalla stessa materia. O ancora i Muse che nella loro “Starlight” usano lo spazio come metafora per descrivere la situazione di isolamento che provavano in quel momento della loro carriera avendo realizzato di non appartenere a nessuna scena musicale specifica, ma di essere soli, in un certo senso unici e originali. Ovviamente mi sembra superfluo star qui ad analizzare il David Bowie di “Life On Mars”, “Starman”, “Space Oddity”, o Elton john con quella perla di “Rocketman”, o ancora i Beatles con “Across The Universe”, giacché non credo proprio abbiano bisogno dei “riflettori” di questo blog per essere apprezzati.

Infine, dopo aver saltellato qua e là tra i generi, concluderei questo viaggio negli anni '70, un'epoca pregna di cultura fantascientifica, dal vestiario agli arredamenti, dalle grafiche al cinema alla musica. Verso fine decennio i nostri genitori e fratelli maggiori assistevano in televisione a un proliferare di abiti cibernetici, trucchi pesanti, personaggi che si muovevano a scatti, luci laser, ecc...era la nuova moda della discomusic spaziale con quei musicisti che sembravano alieni arrivati da un altro pianeta. Tra i tanti c'era un gruppo assurdo che si presentava a bordo di un'astronave, una band francese con le facce verniciate d'argento, costumi spaziali e teste rasate. Erano i Rockets (i “razzi”, appunto), una specie di Daft Punk ante-litteram. E con loro, concludiamo questa playlist immaginaria, un viaggio interstellare assieme a tanti artisti che in qualche modo si sono fatti influenzare dalla tematica cosmica.

A questo link è possibile ascoltare il podcast della puntata

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