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Suono ma nessuno apre

Suono ma nessuno apre

A cura di Matteo Fabbri

Alberto Fortis si racconta: "Oggi una canzone come 'A voi romani' non potrebbe mai essere pubblicata"

Un artista con uno stile tutto suo, che non somiglia a nessun altro. Uno che ha frullato di tutto: dal canzone d’autore al funk, passando per il prog e le influenze sudamericane, il tutto condito da grandi arrangiamenti, un pizzico di sarcasmo e una vocalità sfaccettata esattamente come la sua musica

Qualche settimana fa ho avuto l’opportunità di fare quattro chiacchiere per il mio podcast con uno dei cantautori più eclettici mai transitati nel panorama italiano: Alberto Fortis. Un artista con uno stile tutto suo, che non somiglia a nessun altro. Uno che ha frullato di tutto: dal canzone d’autore al funk, passando per il prog e le influenze sudamericane, il tutto condito da grandi arrangiamenti, un pizzico di sarcasmo e una vocalità sfaccettata esattamente come la sua musica.

Alberto, che ne dici di cominciare subito con un paio di interventi da parte degli ascoltatori? Il primo è Alessandro che dice: “immagino che questa domanda te l’avranno già fatta un milione di volte, però provo a portela dal punto di vista della stretta contemporaneità: sei consapevole che oggi non avresti mai potuto proporre a una qualsiasi casa discografica brani come ‘A Voi Romani’ o ‘Milano e Vincenzo’, in quanto sarebbe scattata in automatico la censura preventiva?”.

Mi rendo conto benissimo che se presentassi oggi una canzone del genere, probabilmente non verrebbe pubblicata. Mi preme però chiarire qual era il mio intento. Io in realtà Roma l’avevo cercata perché ero innamorato di quella scuola cantautorale, soprattutto di De Gregori. Sbottai in quel modo perché ero entrato in determinate maglie poco belle. Nel senso che mi sbattevano in continuazione le porte in faccia e mi avevano messo sotto contratto solo per non farmi andare da un’altra parte, di fatto però bloccandomi per due anni e mezzo. Io avevo vent’anni, e puoi capire cosa volesse dire ritrovarsi fermi, a quell’età, in cui scalpiti come un cavallo selvaggio. E comunque in quelle canzoni non dicevo niente di nuovo o che non fosse già conosciuto. La mia grande delusione di allora fu il fatto che mi misero un marchio addosso, ma soprattutto il vedere che i miei coetanei del tempo non avessero capito il senso di “A Voi Romani”: in quel testo io parlavo anche a nome di quei romani che mi dicevano che erano un po’ schifati da come andavano certe cose.

A proposito di quel primo disco, personalmente reputo che gli album di debutto siano quasi sempre quelli più intriganti, forse perché penso che ogni musicista ci metta dentro tutta la genuinità e, perché no, anche l’ingenuità, di un qualcosa fatto soprattutto per la voglia di comunicare la propria passione. Nel tuo caso non sembra nemmeno il disco di un esordiente, per quanto è già maturo. Per pubblicarlo hai dovuto aspettare più di due anni: non trovi che sia stata proprio questa attesa ad aver giocato un ruolo fondamentale nella resa finale? Si sente che è un disco che non vedevi l’ora di far uscire.

La lunga attesa ha giocato anche nel senso che l’unica canzone in più che è stata inclusa nella versione finale, rispetto a quello che era il materiale iniziale, è proprio l’incriminatissima “A Voi Romani”, concepita proprio a seguito del blocco che mi hanno imposto. Per il resto il materiale era quello, con “La Sedia Di Lillà”, “Il Duomo Di Notte”, “La Pazienza”, “L’Amicizia”, tutte canzoni che da quasi tutti erano state giudicate non idonee alla pubblicazione. Per cui non c’è da stupirsi se, in base alla mia esperienza, rispondo in un certo modo, quando mi si chiede cosa penso delle persone che stanno nei ruoli di lavoro della discografia. Poi ovviamente ci sono anche discografici in gamba. Infatti, guarda caso, quando ci sono direttori artistici che conoscono la materia, ma soprattutto che la amano, si verificano periodi storici in cui nascono nomi forti che rimangono. Faccio un esempio: il mio produttore di allora era Claudio Fabi, papà del Nicolò che conosciamo tutti. Ecco, quando il direttore artistico era lui sono nati: Teresa De Sio, Fabio Concato, la PFM, il sottoscritto, Gianna Nannini, ecc…

Un altro ascoltatore che vuole porti un quesito è Davide, che ti domanda: “Come si pone un artista di fronte alle proprie canzoni di successo? Tu ne hai avute tante belle. Durante i concerti in che rapporto entri con quei brani che sei quasi costretto, tra virgolette, a eseguire perché sai che il pubblico se li aspetta. Sei contento oppure, in un certo senso, stufo?”

Io sono un artista che ama fare i brani più condivisi dal pubblico, anche perché cerco sempre di passare attraverso un’involontaria rivisitazione: soprattutto nei concerti piano/voce questi brani storici hanno ogni sera un qualcosa di diverso. Quindi penso che sia un diritto/dovere ma anche un piacere dell’artista interpretare sempre questi brani perché rappresentano un legame portante del rapporto tra lui e il pubblico. Se una canzone è veramente forte, parla da sé, e ogni ascoltatore la percepisce e interpreta a modo suo, quindi non stanca nemmeno all’autore nel momento in cui la esegue. Quando io, ad esempio, canto “La Sedia Di Lillà”, vivo molti pensieri personali che mi accompagnano nell’esecuzione. E per fortuna che “La Sedia Di Lillà” è stata pubblicata prima di “Purple Rain” di Prince (che io ritengo un genio e un mio maestro). Se no mi avrebbero detto che avrei copiato. Sai, il colore viola e il lillà, la canzone così distesa, l’uso del vocalizzo alto come il suo, ecc…

A questo link è possibile ascoltare l'intervista di Suono ma nessuno apre

Io non so come la pensino i tuoi fan, ma in realtà, a mio gusto, devo dire che il tuo album che preferisco è il terzo, intitolato “La Grande Grotta”, che poi è anche quello che ebbe il maggior impatto nelle classifiche, se non sbaglio. Ciò che mi colpisce di più è che se non ascoltassi la lingua in cui è cantato, potrei tranquillamente confonderlo con un lavoro di un artista inglese o americano. Cioè tu hai sempre avuto un’anima molto internazionale, tale che in certi frangenti non sembri nemmeno italiano, per via delle tante contaminazioni.

Io ho vissuto molto in America e quello fu il mio primo album registrato a Los Angeles. Quindi quel linguaggio musicale ti fa vivere quel sapore di internazionalità. Ma lo è anche la mia formazione, perché quando avevo quattordici anni, ero un batterista, e nei miei gruppetti suonavamo canzoni di King Crimson, Grand Funk Railroad, ecc… Comunque quel mio album, “La Grande Grotta”, arrivò fino alla terza posizione in classifica, ma i primi due erano Michael Jackson e i Dire Stratis. Eppure ti confesso che anche in quel caso, quando io e Claudio Fabi tornammo da Los Angeles con l’album completato, la casa discografica si mise le mani nei capelli e disse “non abbiamo il singolo, cosa possiamo fare?”. Ti rendi conto?

Una cosa di te che mi ha sempre stupito sono i tuoi gusti musicali: hai un’apertura mentale che poche volte ho notato in artisti della tua generazione. Oltre ai soliti grandi miti, ho letto che sei molto attento alla scena attuale. Ad esempio, sbaglio o ti piacciono alcuni esponenti della macrosfera hip hop, come Post-Malone e Childish Gambino?

Certo! Anche Kendrick Lamar in tutte le sue collaborazioni. Ma scusa: se ami la musica come puoi negare che possa essere bello sentire il grande maestro Luciano Pavarotti e un minuto dopo Kendrick Lamar? Sempre di bella musica si parla! Le categorizzazioni e la mania faziosa di inscatolare tutto in generi, sono cose limitanti. Certo, ognuno ha il suo genere, ma non puoi demolire il resto ed essere integralista dicendo “siccome a me piace il funk, io il pop non lo ascolterò mai”.

Vorrei farti adesso una domanda sulla tua voce perché nel tempo ho notato pareri contrastanti. Il tuo timbro ti ha reso riconoscibile, nel bene e nel male. A qualcuno, ad esempio, può pure stare antipatico, perché non proprio convenzionale, a tratti molto acuto, ecc… Eppure per me si è rivelata un connotato positivo, perché molto personale e, come tale, identificabile. Tu punti molto sul far stare bene insieme le parole fra loro foneticamente, se pronunciate in una certa maniera…

Dunque, partiamo dall’inizio. La caratteristica del mio falsetto è stata una cosa che in studio si è decantata naturalmente, nel senso che quando io portai i primi provini ai miei produttori esecutivi (Alberto Salerno e Mara Maionchi) e al mio produttore artistico (Claudio Fabi), laddove immaginavo l’orchestra o il violino, io li parafrasavo con la mia voce e il falsetto. Vedi, ad esempio, proprio “La Sedia Di Lillà”. Dopo un po’ Claudio Fabi mi prende da parte e dice “senti, il violinista non lo chiamiamo a registrare”. E io “scusa perché?”. E lui “perché ci sei già tu”! E, in effetti, devo dire che la storia ci ha dato ragione. Poi io nel tempo ho sempre studiato. Anche nei momenti di maggior successo ho voluto prendere lezioni di canto. In questo modo ho potuto conoscere la mia voce come strumento, e riuscivo a fare concerti di due ore e mezza, uscendone non affaticato. Mentre agli inizi la mia voce era stanca dopo poco più di un’ora. Peraltro, studiando, sono riuscito anche a virare la mia voce verso il soul e la black music, che io adoro tanto.

Ti va di parlarci di questi ultimi anni? Ci sono alcune tue canzoni recenti che non hanno nulla da invidiare alle produzioni passate e potrebbero tranquillamente star bene anche dentro ad alcuni tuoi dischi storici, penso a un brano come “Nyente da Dire”, oppure all’audace “Venezia”, che è un’esplosione di suoni, anche elettronici.

“Venezia” in qualche modo è stata galeotta per il “Leone d’Oro” alla carriera che mi è stato consegnato. Si tratta, comunque, di canzoni anche molto radiofoniche, che però pagano lo scotto di non avere una comunicazione forte: oggi o vieni bombardato in radio o partecipi al Festival di Sanremo, oppure il pubblico non ha la percezione delle tue nuove cose. E qui devo tirare un po’ le orecchie alle persone di una certa generazione, diciamo dai quarantacinque anni in su, perché non usano il telefono per la musica. Io incontro un sacco di fan che mi dicono “Alberto, sei il mio idolo, ma come mai non fai più niente?”. E io gli rispondo “scusa ma devi saperti informare, devi sapere che oggi ci sono modi diversi di fruire la musica”. Se la generazione più anziana usasse un po’ di più questi mezzi aiuterebbe a creare un’attenzione di mercato diversa da parte della discografia. Ad ogni modo, la mia attività è sempre molto intensa, sia in studio, sia dal vivo, sia sui social dove ho ottimi numeri e sono testimonial di diverse “Onlus” per gli aiuti. Ultimamente ho avuto l’onore di ricevere un premio della “Fondazione Gatto” come convergenza di musica e poesia. E posso anticiparti in anteprima che un gruppo di produzione sta lavorando a un film sulla mia storia. Ho pronto anche un album nuovo, ma stavolta starò molto attento nel tentare di assicurarci una forte comunicazione.

Bene, voglio concludere con un piccolo aneddoto bizzarro che mi ha raccontato un collega, Lorenzo, appena ha saputo che saresti venuto ospite nel mio podcast. Lorenzo qualche anno fa ha assistito a una scena fantastica: uno dei primissimi concerti che vide fu quello di Bob Dylan, e tu aprivi per lui. Mentre suonavi, un tizio vicino a Lorenzo era carichissimo: saltava, cantava, urlava come un pazzo frasi come “grande Alberto, grande Alberto”. Al termine, finito il tuo concerto, quel tizio se ne è andato. Non è rimasto a vedere Dylan perché non gli interessava. Era lì solo per te! Cioè, aveva Bob Dylan lì, aveva pagato il biglietto intero, chissà quante altre occasioni avrà avuto di vederlo nella sua vita, eppure se ne è andato dopo il tuo show, perché gli interessavi solo tu. Fantastico!

Beh, ti ringrazio di questa testimonianza. Però vorrei essere come in “Back To The Future” e tornare indietro nel tempo per bloccare quella persona e, dopo averlo ringraziato per l’affetto, dirgli anche “fermati! Adesso arriva il maestro dei maestri, Bob”. Peraltro ho conosciuto Bob, abbiamo fatto due chiacchiere nel backstage, cosa che non è mai molto facile con lui. Poi ho avuto anche l’occasione di conoscere uno dei suoi figli quando vivevo a Los Angeles, che di mestiere faceva il regista di videoclip e c’era possibilità di avere la sua regia per un mio video. A proposito di Bob, mi piace sempre ricordare una sua citazione: “in fondo noi artisti abbiamo delle antenne che vanno a captare delle cose che sono già scritte nel cielo”. Quando ha detto quella frase io ho pensato alla mia canzone “Il Duomo Di Notte”, perché nacque proprio in una notte milanese quando ero ancora studente e mi trovavo seduto sui gradini di Piazza Duomo, col Duomo alle spalle, e mi chiedevo se tentare la carriera artistica sarebbe stata la via giusta, perché era una scommessa difficile. E in quel momento mi è arrivata quella canzone, sono corso a casa, l’ho fissata subito, ci ho lavorato un pochino e poi è diventata la canzone che è diventata…

Che altro dire? Io ti ringrazio tanto, Alberto, per la tua estrema disponibilità e per i tuoi racconti. E invito chiunque stia leggendo ad ascoltare la tua brillante produzione discografica perché sei uno di quegli artisti italiani che hanno saputo dare una sterzata alla nostra tradizione, contribuendo a svecchiare la canzone italiana e dandole un taglio più internazionale.

Eh, forse è proprio per questo che ho avuto delle difficoltà (ride, ndr). Ciao Matteo e grazie di tutto!

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