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Suono ma nessuno apre

Suono ma nessuno apre

A cura di Matteo Fabbri

L'ignoranza musicale (e non solo) che ci porta a sfottere Gianluca Grignani

Ben vengano i (sacrosanti) monologhi contro razzismo, sessismo e omofobia. Ma non contano nulla se poi gli stessi che li applaudono sono coloro che un minuto dopo scherniscono una persona in evidente difficoltà

Nei giorni scorsi è tornato alla ribalta un personaggio della musica italiana verso il quale da tempo è cambiata la percezione del pubblico: Gianluca Grignani. Venerdì scorso, in particolare, il cantautore si è presentato sul palco dell’Ariston per duettare insieme a uno dei concorrenti, Irama, nella serata del Festival dedicata alle cover. Le chiacchiere e le dicerie scaturite subito dopo l’esibizione si sono sprecate: dalle accuse di un presunto litigio tra i due musicisti dietro le quinte per la scelta della canzone (secondo qualcuno Irama avrebbe preferito “Destinazione Paradiso” invece de “La Mia Storia Tra Le Dita”) fino ad arrivare ai meme e agli sfottò, anche pesanti, nei confronti della figura di un Grignani apparso bolso e, diciamo, poco lucido (per usare degli eufemismi rispetto ai ben più offensivi commenti letti in giro per il web).

Lasciando da parte le polemiche del caso, nelle ore e nei giorni seguenti alla performance ho provato ad analizzare questo “fenomeno”. Ho tentato, cioè, di capire perché Grignani sia diventato un bersaglio così facile per detrattori e leoni da tastiera. Giungendo alla conclusione che, al di là delle sue vicende extra-musicali e di certi atteggiamenti, tutto questo pregiudizio nei suoi confronti derivi dalla nostra ignoranza in materia musicale, e sia riconducibile al fatto che in fin dei conti noi Grignani non lo conosciamo per niente come uomo, e prima ancora nemmeno come musicista. E’ per questo motivo che da molti è stato bollato come il classico artista “finito”, come uno che non ne azzecca più una da una vita, che non ha più niente da dire nel contesto musicale (se mai lo ha avuto) e che ha solo tanti grossi problemi a livello personale.

Cerchiamo invece di fare un po’ di chiarezza, cominciando col dire che almeno a livello musicale non è affatto così. A Grignani quasi fin da subito è stata appiccicata addosso l’etichetta di belloccio senza contenuto e senza qualità. Commento amplificato dall’esplosione del suo primo album, “Destinazione Paradiso”, che in realtà era un bellissimo disco e conteneva, tra le altre, le hit “Falco A Metà”, “La Mia Storia Tra Le Dita” e la title-track. In quel momento (1995-1996) era un teen-idol all'apice del successo che finiva regolarmente sulle copertine dei magazine (musicali e non).

Poi il netto cambio di marcia di cui spesso ci si dimentica: con un coraggio da leoni ha mandato a quel paese le dinamiche dell’industria musicale (che lo voleva modellare a proprio piacimento), producendo un paio di dischi caratterizzati da sonorità che all’epoca in Italia erano, non dico rivoluzionarie, ma quantomeno estranee rispetto a quelle presenti nel panorama mainstream. Per sua stessa ammissione ha cercato, ad esempio, di emulare il sound dei primi Radiohead, che qui da noi erano ancora poco apprezzati. E si è lanciato in una ricerca sonora in cui l’atmosfera cantautorale si fondeva con vari generi anglo- americani in una miscela di brit-pop, grunge, psichedelia, suoni acidi e sperimentali. Tutti col minimo comun denominatore del rock. Si trattava di album veramente stimolanti e diversi da tutto ciò che si faceva in Italia allora. Tanto che, infatti, dopo il boom del primo LP, questi successivi furono un semi-flop commerciale.

Insomma, una parabola che denota un’enorme temerarietà da parte sua: maturando, ha voluto fare di testa sua, senza piegarsi a nessuno e uscendosene anche con frasi forti di critica verso il music business come “Io vengo dalla fabbrica di plastica dove mi hanno ben confezionato, ma non sono esattamente uscito un prodotto ben plastificato”. E la cosa più interessante (ma spesso offuscata) che certifica ulteriormente il suo talento è che composizioni, suoni, testi, chitarre e arrangiamenti erano tutti farina del suo sacco, anche a costo di andare contro la logica delle case discografiche.

Insomma, adesso Gianluca Grignani ha un’immagine che ha sbiadito i ricordi e ha influenzato l’idea che abbiamo del personaggio, ma andando a ripescare i suoi lavori degli anni ‘90 troviamo, senza timore di smentita, un artista audace, con un’ottima cultura musicale, un notevole bagaglio tecnico e un’innata capacità nello scrivere belle melodie. Non credo che tutta questa coda di polemica post-Sanremo si sarebbe verificata se a presentarsi un po’ sopra le righe sul palco fosse stato un artista stimato come Bersani o uno sulla cresta dell’onda come Cremonini (per citarne uno della stessa generazione e uno leggermente più giovane). In quel caso probabilmente l’avremmo presa tutti come una serata storta, una cosa passeggera, tale da non compromettere un’onorata carriera costellata di grandi canzoni.

Per Grignani invece è diverso: lui ormai ha un determinato marchio ben impresso sulla fronte e scrollarselo di dosso, riguadagnando credibilità agli occhi dell’opinione pubblica, non è semplice. E probabilmente nel suo caso non lo sarà mai. Ben vengano quindi i (sacrosanti) monologhi contro razzismo, sessismo e omofobia. Ma non contano nulla se poi gli stessi che li applaudono sono coloro che un minuto dopo scherniscono una persona in evidente difficoltà. Per cominciare, forse, la cosa migliore da fare sarebbe quella di riprendere in mano i primi album della discografia di Gianluca Grignani, per riscoprire un talentuoso esponente della scuola cantautorale italiana (almeno quella dagli anni ‘90 in poi). Chissà, magari cambiando idea prima di tutto sul musicista, forse di conseguenza lo faremo anche sull’uomo...

A questo link è possibile ascoltare il podcast 'Suono ma nessuno apre'

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