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Suono ma nessuno apre

Suono ma nessuno apre

A cura di Matteo Fabbri

Intervista a Immanuel Casto: "Sono vittima di un pregiudizio che ha una doppia radice: il sesso e la comicità"

"Il pubblico italiano non considera l’intrattenimento comico elevato alla pari di quello serio, e in più considera la sessualità come necessariamente triviale. Questo lo porta ad approcciarsi a me con pregiudizio"

Oggi qui con noi abbiamo Immanuel Casto, un artista a tutto tondo che ormai da più di 15 anni si divide tra passioni e progetti diversi e sempre nuovi: cantante, compositore, ideatore di giochi di carte e da tavolo con già diversi titoli all'attivo, ruolo nel direttivo del Mensa (associazione internazionale senza scopo di lucro di cui possono essere soci coloro che hanno raggiunto o superato il 98º percentile del QI in un test standardizzato), attivista e sempre in prima linea nella difesa dei diritti civili, insomma una marea di cose (e sicuramente ne dimentico qualcuna).

Ciao Immanuel, benvenuto!

Ciao Matteo, che presentazione fantastica, grazie di cuore.

Dunque, oggi ci focalizzeremo principalmente sulla sfera musicale della tua vita artistica. Nelle scorse settimane hai festeggiato il decennale di “Adult Music”, il tuo primo disco a essere distribuito ufficialmente (anche se eri attivo già da prima). So che hai iniziato tutto per puro divertimento, ma ti chiedo: come pensavi saresti stato accolto dal pubblico in un paese come l'Italia? In un progetto come il tuo il rischio è che la gente si fermi alla superficie. Invece negli anni sei stato in grado di creare una tua identità e credibilità, riuscendo sì a far ridere, ma anche a far riflettere.

Hai centrato dei punti molto importanti. Il mio primo album è uscito nei negozi nel 2011 e lì ho iniziato a “esistere” dal punto di vista discografico, però a livello artistico ero già attivo fini dal 2004 circa. Sono stato uno dei primi artisti a emergere su MySpace: ai tempi venivo definito una “web celebrity”, termine che oggi non ha più ragion d’essere perché non c’è più una dicotomia “realtà-web”. Il mondo dei social è il mondo ormai, o perlomeno ne è una parte importante. Quando ho iniziato questo percorso non c’era un progetto professionale, all’epoca facevo l’art director per un’agenzia di comunicazione e frequentavo un’accademia d’arte drammatica. Ho iniziato per divertimento a scrivere canzoni che si inserivano in un filone demenziale come Skiantos, Squallor, Elio, ma che riprendevano anche artisti anni ‘70-’80 come la Rettore, Cattaneo o il primo Renato Zero. E ho provato ad alzare un pochino la posta a livello di contenuti. La mia era un’operazione un pochino dadaista, ossia Duchamp che mette un cesso in un museo e dice “dato che la cornice è quella artistica, questo diventa arte”. E’ un po’ quello che facevo io, curando molto bene la produzione musicale e dei videoclip e creando un effetto nello spettatore del tipo “oddio, cosa ho appena visto? Questa è una produzione professionale ma sta veramente parlando di prostituzione? Cos’è sto delirio?”. Col tempo il mio progetto si è evoluto e con l’arrivo di un manager e di un’etichetta discografica mi sono detto “potrei provare a portare a livello professionale questa mia passione”. Negli anni il mio estro artistico è cresciuto e il mio pubblico è cresciuto insieme a me. E concludo con l’ultima domanda che hai fatto, cioè se ho paura che il pubblico italiano si possa fermare di fronte alla parola colorita o al titolo, senza andare oltre. Ecco: una paura presuppone che possa non succedere, la mia invece è proprio una certezza!

(risate, ndr) Effettivamente non tutti all’inizio ti capivano: io ad esempio lessi qualche brutta recensione in passato, e proprio recentemente ne hai postata una tu dell’epoca scritta da Andrea Scanzi che ti denigrava.

Quella è geniale perché Scanzi per denigrarmi mi associava a Raffaella Carrà. Cioè, utilizzare la Carrà come esempio denigratorio dice molto di più su chi sta usando l’esempio che non sull’esempio stesso. Io sono vittima di un pregiudizio che ha una doppia radice: il sesso e la comicità. Per quanto riguarda il sesso, se è vero che non tutti i miei brani parlano di sesso, è anche vero che quelli che lo fanno sono quelli che rimangono più in testa. E culturalmente si associa il sesso alla volgarità (anche se per me è molto più volgare un programma di intrattenimento come quelli che vediamo tutti i pomeriggi). Per quanto riguarda la comicità, invece, c’è una cosa che non perdono alla nostra cultura, nonostante discendiamo da una scuola della commedia, sia la commedia dell’arte, sia la commedia del ‘700, sia andando indietro in epoca romana. Ovvero: tutti noi abbiamo in testa questa dicotomia per cui “drammatico” è “alto”, mentre “comico” è “basso”. Generalmente per il pubblico un prodotto comico è una robetta senza spessore. Quando invece di schifezze con velleità drammatiche è pieno il mondo. Molti non capiscono che far ridere e far riflettere richiede veramente tantissimo studio e tantissima attenzione anche alle singole parole. C’è dietro un lavoro enorme. Il pubblico italiano non considera l’intrattenimento comico elevato alla pari di quello serio, e in più considera la sessualità come necessariamente triviale. Questo lo porta ad approcciarsi a me con pregiudizio. Ma io di quella parte del pubblico mi ci sciacquo le palle. Per mia fortuna c’è un’ampia fetta di popolazione che invece va oltre.

Venendo all’aspetto sonoro della tua proposta, mi ha sempre incuriosito sapere le tue influenze musicali. Nelle tue canzoni sento una certa affinità con il sound anni '80 (e quindi sintetizzatori, tastiere, ecc..), ma anche con la dance anni '90. Confermi? Erano cose che ti piacevano e piacciono tuttora? Che musica ascoltavi da ragazzo? Con quali artisti sei cresciuto musicalmente?

Beh, hai citato i principali riferimenti sonori della mia produzione, di cui molto merito va riconosciuto al mio partner musicale Keen. Sai Matteo, io ho una teoria per cui secondo me le persone interiorizzano il decennio di nascita. Ad esempio: un mio ex, con cui c’era un’importante differenza d’età, è nato negli anni ‘60 e lui aveva dentro questo gusto estetico sonoro per gli anni ‘60-’70. Io invece, nato all’inizio degli anni ‘80, ho dentro quel decennio. Che non è che io a due anni stessi lì ad ascoltare attivamente i Duran Duran o Madonna, però in qualche modo per osmosi devo averlo assorbito. E poi ovviamente gli anni ‘90 che invece hanno segnato la mia adolescenza. Il primo album che comprato coi miei soldi comunque è stato “Spice World”, il secondo disco delle Spice Girls.

Come dicevamo, sono passati dieci anni dal tuo primo disco e ormai venti da quando hai iniziato effettivamente a creare canzoni. In questo periodo è impossibile non aver notato una certa evoluzione nel tuo percorso. Dal punto di vista strettamente musicale, penso che il tuo sia diventato uno dei prodotti più internazionali che abbiamo in Italia. Le basi e i beat che produci assieme a Keen potrebbero tranquillamente competere col miglior mainstream anglofono. E non ho paura di dire che in pezzi come “Sognando Cracovia” io ci sento pure Battiato. Diciamo che la tua evoluzione se la sognano molti gruppetti indie considerati più “seri”. Come vedi questa tua evoluzione di musica e testi?

Anche qui hai centrato dei punti chiave, sono proprio colpito da quanto siano a fuoco le tue domande. Sì, ripongo grandissima attenzione nelle produzioni: buona parte delle mie produzioni le considero tra le migliori in italia dal punto di vista tecnico e sonoro. Almeno nel mio genere. E, pensa, quando mi chiedevano “qual è un artista italiano con cui ti piacerebbe collaborare?”, io rispondevo “so che molti percepiranno come offensiva questa risposta, ma è Battiato”. Quando è morto lui, per me è morto il più importante cantautore della storia italiana. Sì, mi sento di dire un assoluto di questo tipo perché ha avuto un impatto trasversale. E penso che chiunque faccia musica oggi abbia nei suoi confronti un debito. Quindi mi fa piacere che tu abbia colto qualche riferimento di Battiato in me. Discorso “mercato estero”: tentativi all’estero sono stati fatti, ma purtroppo sempre andati male. Tutto passa dagli investimenti delle major e io non ho nessun partner all’estero. Poi c’è da dire che quello che faccio è molto chirurgico nel descrivere la cultura italiana, sono cose difficili da adattare.

Ti dico la verità: io ho sempre pensato che tu avresti avuto e hai ancora la possibilità di sfondare davvero nel mainstream, se non altro perché produci sistematicamente delle melodie davvero accattivanti e ritornelli che si stampano subito in testa. A tal proposito, so che ti affascinerebbe partecipare al Festival di Sanremo e, a mio avviso, nella tua carriera hai già fatto alcune canzoni che non avrebbero sfigurato se presentate a Sanremo: penso a “Da Quando Sono Morto” che trovo a tratti commovente, oppure la stessa “Dick Pic”, il tuo ultimo singolo. Pensi che prima o poi transiterai dal palco dell'Ariston? O c'è qualcosa che ti frena?

Sul fatto che ci starebbero bene ne sono convintissimo da ogni punto di vista. E senza dover edulcorare il testo. Ovviamente non andremmo a prendere pezzi con delle soluzioni offensive all’interno, però il fatto che ci possa essere qualche nota di colore darebbe visibilità all’intera operazione artistica. Nel 2014 ci provai assieme a Romina Falconi con un pezzo sulla violenza domestica intitolato “Finché Morte Non Ci Separi”, ma non fui scelto. Però mi permetto di specificare una cosa perché è importante rimuovere una patina di ingenuità a quante più persone possibili: la selezione a Sanremo è fortemente subordinata alle logiche commerciali. Ogni etichetta ha un numero di slot garantiti. Ed è l’etichetta che decide chi mandare al Festival. Il prodotto artistico è spesso irrilevante. Se noti, non è affatto raro vedere artisti che portano a Sanremo la canzone più brutta che abbiano mai fatto. Perché? Perché l’accordo con l’etichetta è stato preso qualche mese prima e hanno dovuto tirare fuori apposta un pezzo per l’occasione. Tu prima hai fatto di nuovo un’analisi precisissima: io sono un artista con un seguito bello e consolidato, ma sono un grosso nome nell’alternativo, non nel mainstream. Ti spiego: per giudicare la rilevanza di un artista possiamo utilizzare come parametro il tipo di locale in cui suona. In ambito alternativo, io penso di essere al livello più alto che un artista alternativo possa conseguire. Sopra c’è il mainstream. Per capirci: si passa dal music-club tipo l’Alcatraz al palazzetto. Ecco, quello scarto lì io attualmente non lo faccio. Ma attenzione a sognare la major, perché ha un prezzo enorme. E questo lo dico soprattutto se ci sta leggendo qualche giovane artista emergente. La major si prende tutto, in particolare la tua libertà. Significa che se firmi con una major non puoi decidere di suonare dove vuoi, non puoi andare a fare una serata se a te piace, non decidi più quando e con cosa uscire. Potresti trovarti costretto a uscire con un disco quando non c’è ancora la materia, semplicemente perché la logica della major è “mungere la vacca fino all’ultima goccia”. In generale, mi sento di dire che un artista lavorerà tutta la vita per ottenere due cose: quanti più mezzi possibili e quanta più libertà possibile. Generalmente si otterrà una sola delle due cose: in ambito alternativo scegli la libertà, ma avrai meno mezzi. In ambito mainstream hai i mezzi ma rinunci alla libertà. Non c’è nulla di male: sono delle logiche di mercato che semplicemente esistono.

Hai fatto un’analisi molto chiara. Parlando invece dei tuoi testi, anche dietro a canzoni allusive, volutamente goliardiche e di intrattenimento celi sempre belle intuizioni e messaggi profondi e forti, anche di critica sociale. Penso a “Escort 25” o “Zero Carboidrati”, ma anche “Killer Star” contro la morbosità dei media, e tante altre. Insomma, sei in grado di veicolare messaggi importanti, riuscendo contemporaneamente anche a far ridere. Secondo te è importante che un artista porti un messaggio nelle proprie canzoni o pensi che non sia sempre necessario?

Non è assolutamente necessario. Ma questa risposta io la darei a qualsiasi cosa che pretenda di stabilire ciò che “debba” fare l’arte. Io sono della scuola di Oscar Wilde, ovvero “l’arte è inutile”, o meglio nasce inutile e questa inutilità va preservata. E’ l’artista che decide cosa metterci dentro. A me comunque piacciono artisti che mettono messaggi nei loro pezzi. E’ un approccio più ricorrente nel cantautorato, però ci sono anche esempi nel pop, magari più semplici. Pensiamo anche solo alle Spice Girls col loro motto “Girl Power”, oppure a Madonna con “Express Yourself” o Lady Gaga con “Born This Way”. Sono messaggini, però ci sono ed è bello che li promuovano soprattutto quando si ha un pubblico così grande come nel loro caso.

Immanuel, io ti ringrazio molto per la tua disponibilità. Sono un tuo seguace più o meno da sempre e una delle cose che apprezzo maggiormente è che non sei legato a una sola canzone o un tormentone. Cioè tu non sarai mai ricordato come “Immanuel Casto, ah sì, quello di Tropicanal”, e via dicendo. Hai tante canzoni al tuo arco, tutte più o meno allo stesso livello. E immagino sia difficile per te scegliere quali lasciare fuori nei concerti o nelle raccolte. Tra i tanti tuoi pezzi devi sapere che la mia preferita, o comunque quella che ascolto più spesso, è “Do Ut Des”, una perla di testo, melodia e musica.

Ma pensa! Sei la prima persona che dice di amare quel pezzo, non che sia brutto eh. Comunque è bellissima questa cosa che hai detto e vivo con profonda gratitudine il fatto di non essere associato a una singola canzone. Per dire, ogni artista ha una canzone che fa impazzire il pubblico quando parte dal vivo. Ecco, io ne ho una quindicina così! A tal proposito concludo e vi saluto con questo aneddoto: a inizio carriera ho conosciuto uno scrittore americano che mi ha fatto un bizzarro augurio che ai tempi non capisco, ma che ora capisco in pieno. Mi disse “non ti auguro di avere un enorme successo con una canzone”. Gli risposi “ma vaffanculo”. E lui rispose: "Per un artista è molto meglio una catena crescente di piccoli successi che un unico grande successo”. Aveva ragione...

A questo link è possibile ascoltare la puntata del podcast

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