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Suono ma nessuno apre

Suono ma nessuno apre

A cura di Matteo Fabbri

Da De Andrè ai Tazenda: quando la musica in dialetto entra in classifica

Il dialetto in musica è un argomento vasto che non si può liquidare in poche righe, ma è un tema affascinante, per cui voglio vedere insieme a voi qualche esempio

Il dialetto in musica è un argomento vasto che non si può liquidare in poche righe, ma è un tema affascinante, per cui voglio vedere insieme a voi qualche esempio. E, per restringere un po’ il campo, ho scelto di occuparmi di quelle che sono state in grado di lasciare il segno in tutto lo Stivale, entrando in classifica nonostante le parole fossero incomprensibili ai più.

Il mio primo approccio con la musica dialettale risale a circa trent’anni fa, nel 1991. Era inverno e stavo guardando la televisione sintonizzata su Sanremo dove a un certo punto compare un giovane trio di uomini capitanati da un cinquantenne, con sguardo fiero, sulla carrozzina. Vengono presentati come “Pierangelo Bertoli e i Tazenda” e l’intensità di quella loro esibizione folgorò il pubblico, tanto che partì spontaneamente quella che ancora oggi è considerata la standing ovation più lunga della storia del Festival. Il motivo è semplice: si erano appena cimentati in “Spunta La Luna Dal Monte”, una canzone da brividi cantata parzialmente in lingua sarda. Era la prima volta che qualcuno a Sanremo usava una lingua diversa dall’italiano. I Tazenda sono un gruppo etno-rock caratterizzato dal costante riferimento alla musica tradizionale sarda. Di loro colpisce soprattutto la voce angelica del compianto Andrea Parodi. “Spunta La Luna Dal Monte” è la versione riadattata della loro “Disamparados”. A curarne la riscrittura è stato “l’artigiano della canzone”, come amava farsi chiamare l’emiliano Pierangelo Bertoli, che si era innamorato del pezzo e lo aveva trasformato in una versione in cui italiano e sardo si intrecciano magistralmente. La voce bassa di Bertoli si coniuga alla perfezione con quella meravigliosa di Parodi in un testo che è la descrizione di un paesaggio sardo in cui la luna sorge dietro le montagne e in cui bambini poveri e disadattati – i “disamparados”, appunto – giocano su un prato. In pochi giorni mezza Italia si ritrovò a canticchiare in un improbabile sardo.

Voltiamo decisamente pagina, spostandoci fino al Nord-Est della penisola, precisamente a Venezia. Puntiamo le lancette sul 1997. Sempre a Sanremo. Quell’anno viene ricordato per la vittoria di “Fiumi di Parole” dei Jalisse. Ma è da menzionare anche una band proveniente dal Veneto per ereditare il ruolo colorato che avevano avuto gli Elio e le Storie Tese l'anno precedente. Mi riferisco ai Pitura Freska, direttamente da Marghera, un gruppo irriverente, dalle forti influenze ska/reggae, e testi in dialetto veneziano, che sul palco dell’Ariston non si è snaturato e ha presentato la contagiosa “Papa nero”, conquistando tutta l’Italia. Il reggae in salsa veneziana e un mix fatto di orecchiabilità e ironia è la ricetta che li ha portati a ottenere un grande seguito nazionale. Il successo è arrivato nel 1997, ma in realtà la band era attiva già da fine anni ‘70. In particolare, l’illuminazione per loro (e soprattutto per il frontman Sir Oliver Skardy) arrivò grazie al concerto di Bob Marley, a Milano, nel 1980. “Papa Nero”, col celebre ritornello in levare, è ispirata sarcasticamente alle profezie di Nostradamus, secondo cui dopo il papa venuto dal freddo sarebbe dovuto arrivare un Papa proveniente dall’Africa e portare la fine del mondo.

Rimaniamo al nord ma sulla sponda opposta: ci muoviamo verso il Mar Ligure, possibilmente in barca, circumnavigando la penisola (e non dico questa cosa a caso, poi capiremo). Affrontiamo uno dei più grandi cantautori italiani, per molti il più grande. Uno dei primi ad aver portato il dialetto all’attenzione di tutti. Non solo il suo, anche quello di altre regioni, come il napoletano, l’abruzzese o ancora quello sardo, nonostante egli sia originario di Genova. Nel 1984 Fabrizio De André, stufo di sentire musica americana, decise di realizzare un disco che abbracciasse un po’ tutte le culture del Mediterraneo, utilizzando il genovese antico, una lingua del mare, usata nel contesto degli scambi commerciali e che quindi conteneva vocaboli ed espressioni genovesi, ma anche arabe, catalane, greche, turche, portoghesi, ecc... In questo modo, produce uno dei suoi capolavori: “Creuza de Mä”, che letteralmente si traduce come “Mulattiera di mare”, cioè un viottolo che collega l’entroterra al mare. L’album rappresenta l’ennesima innovazione del cantautore genovese e si discosta dai suoi primi anni, caratterizzati dall’uso quasi esclusivo di voce e chitarra. In questo aspetto viene coadiuvato da Mauro Pagani: i due avevano viaggiato ed erano rimasti affascinati dalle sonorità mediterranee, scegliendo di usare strumenti musicali tipici balcanici, nordafricani e mediorientali. Mentre la decisione di scrivere i testi in un’altra lingua ha anche esigenze di musicalità: quel tipo di genovese era più adatto dell’italiano alla poesia in musica, perché ricco di parole tronche e dittonghi. Ascoltando quei brani ci si ritrova catapultati nel cuore dei vecchi mercati di Genova o magari su un’imbarcazione nelle rotte del commercio via mare.

Torniamo al sud, e lo facciamo con un altro nome grosso. Un personaggio alto e popolare al tempo stesso. Del resto, a dispetto dell’immagine spirituale che gli è sempre stata attribuita, Franco Battiato aveva un grande senso dell’umorismo e nel quotidiano adorava parlare in dialetto, senza che ciò fosse in contrasto con la sua figura intellettuale. Uno dei rari esempi di utilizzo del dialetto catanese nella sua sconfinata opera lo troviamo nel 1979, anno d’uscita de “L’Era del Cinghiale Bianco”, il disco della clamorosa svolta pop di Battiato, la cui ultima traccia, intitolata "Stranizza D'Amuri", è una poesia d’amore, cantata interamente in dialetto. Racconta di un amore sbocciato in un contesto insolito: la canzone è infatti ambientata ai piedi dell’Etna, durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Non proprio uno scenario romantico. Eppure in questo luogo nasce quella “stranizza” d’amore, che viene espressa con immagini molto evocative che sovrastano la tragedia della guerra ed esaltano la capacità dell'amore di sopravvivere a qualsiasi circostanza, anche la più negativa. E’ bello pensare che questa canzone sia un ricordo indiretto dei suoi anni dell'infanzia, come fosse l’eco della guerra appena passata (Battiato, del resto, è nato nel marzo del ‘45). Le altre occasioni di canzoni in dialetto si conteranno sulle dita di una mano, ma Battiato ha sempre mantenuto un legame vivo con la sua terra d’origine. D’altronde lui stesso dichiarò: “Chi muore, muore in dialetto”.

Adesso facciamo un salto nella capitale. Roma è sinonimo di storia, cultura e della cosiddetta romanità. E uno dei modi migliori per assaporare tutto questo è proprio attraverso la musica: dai brani dedicati alla città, fino all’autenticità degli stornelli da osteria. Non c’è una voce unica che renda omaggio alla Capitale. I nomi da citare sarebbero un’infinità: da Lando Fiorini, alla splendida Gabriella Ferri, passando per Nino Manfredi, l’eccezionale Gigi Proietti, e senza dimenticare le canzoni scritte da Franco Califano che ha saputo cogliere certi umori della città come nessun altro. Oggi però voglio dare spazio al cantautore che più di tutti ha manifestato il suo senso di appartenenza a Roma, con un linguaggio scarno e diretto. Un personaggio di frequente messo in secondo piano: Antonello Venditti. Oggi può suonare strano, ma Venditti negli anni ‘70 poteva vantare la stessa considerazione dei vari Dalla, Guccini, De Gregori. Non a caso piaceva molto a Battisti e a De Andrè, che lo consideravano tra i migliori della sua generazione. Ultimamente si sentono quasi solo le sue hit post-1980, e quasi mai i brani storici del suo repertorio anni ‘70 che restano di ottima fattura, alcuni addirittura in stile “Elton John”, e non cantautorali in senso stretto (non a caso Venditti era uno che componeva al pianoforte, non alla chitarra). Venditti è un simbolo della città, alla quale ha dedicato tante canzoni, la più importante delle quali è “Roma Capoccia”. Il testo, scritto ancora quando aveva appena 14 anni ma portato al successo nel 1972, è un vero e proprio inno a Roma, alle sue bellezze e alla sua immortalità.

Che altro dire? Ci sarebbero tanti altri dialetti da sviscerare, oggi ho dovuto lasciarne fuori tanti (a partire dalla scuola napoletana, ma solo perché le avevo già dedicato un intero articolo). C’è chi usa il dialetto per la tradizione, chi per raccontare meglio il proprio territorio e le proprie radici, chi per sentirsi più libero, chi per esprimere concetti impegnati, chi ancora semplicemente per esigenze di metrica. Qualunque sia il motivo, quelli che abbiamo visto oggi sono stati in grado di far svettare a livello nazionale canzoni con parole incomprensibili a tanti, ma riuscendo ugualmente a trasmettere un’emozione.

A questo link è possibile ascoltare l'episodio del podcast

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