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Cronaca

Ricoverato in ospedale prende il Coronavirus e muore. La figlia: "Non voglio vendetta, ma giustizia"

Il 78enne è morto dopo oltre un mese di ricovero all'ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, quindi col forte sospetto che il contagio sia avvenuto in ambiente ospedaliero

L'ultimo morto a causa del Coronavirus a Forlì, il 99esimo nel conteggio delle statistiche ufficiali per quanto riguarda il territorio, è Alberto Dirani, forlivese di 78 anni ed ex geometra del Comune di Ravenna. Da quando era andato in pensione, Alberto era un uomo dai tanti interessi culturali. "Ha fatto l'attore come comparsa in alcune fiction della Rai, finché ha potuto andava nelle scuole a recitare la Divina Commedia ed era un frequentatore quotidiano della biblioteca comunale”, lo ricorda la figlia Deborah Dirani, anche per togliere l'aridità della statistica e ridare pienezza al fatto che ogni morto in più in questo triste conto è un affetto che se ne va in una famiglia. 

Allettato, con molte e gravi patologie pregresse - tra le quali, l'ultima, un ascesso polmonare - Alberto era una vittima quasi priva di scampo in caso di contagio dal virus. E anche la figlia, che vive in una frazione ravennate e lavora come addetta stampa e nel campo della comunicazione, era consapevole della fragilità complessiva dell'anziano genitore: “Mio padre avrebbe compiuto 79 anni a luglio, ma non eravamo così sicuri che sarebbe arrivato a luglio”. C'è però un “ma”, perché anche nelle condizioni più disperate ogni giorno strappato alla morte è prezioso. Alberto è morto dopo oltre un mese di ricovero all'ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, quindi col forte sospetto che il contagio sia avvenuto in ambiente ospedaliero, dove invece avrebbe dovuto trovarsi più al sicuro; anche se purtroppo la storia recente ci ha insegnato che soprattutto nel picco epidemico luoghi di cura e case di riposo si sono rivelati posti a forte rischio in tutt'Italia. “Mio padre la 'peste' non se l’è presa gironzolando incauto per il paese - spiega Deborah - Se l’è presa perchè nel 2020 i protocolli funzionano solo nel senso del divieto, non della prevenzione. Perché i protocolli del 2020 sono gli stessi della peste di Manzoni”.

La figlia spiega di non aver desideri di rivalsa, di non cercare risarcimenti, ma di volere delle risposte perché a suo padre, spiega, “è stata regalata la morte più atroce del mondo, ma lui mi ha insegnato il desiderio di giustizia, non di vendetta. E io, gliel’ho promesso a quella bara, avrà giustizia”. La figlia non ha potuto più vederlo da metà marzo e sabato scorso è stata informata della morte, al culmine di un peggioramento veloce delle sue condizioni, dopo che il tampone era risultato positivo. Prima di quel tampone, spiega – pur in un quadro clinico parecchio grave – i medici non parlavano di decesso imminente, ma di condizioni stabili da permettere il trasferimento in una struttura per lungodegenti. Poi, proprio l'ultimo tampone prima del passaggio - il sesto dal suo ricovero, per dare sicurezza alla struttura in ingresso - ha rivelato la positività il 29 aprile, mentre un altro trasferimento nella stessa struttura era stato bloccato la settimana precedente in quanto nel reparto ospedaliero si era originato un focolaio.

Il 78enne era ricoverato dal 1 aprile nel reparto di Medicina post-acuti (quindi un reparto no-Covid) e, lamenta la figlia, per una settimana – dal 15 aprile al 22 aprile – ha avuto come compagno di stanza un altro degente con sintomi a rischio, tra cui forte tosse e febbre alta. Secondo la parente, la positività del compagno di stanza sarebbe emersa il 22 aprile nell'ambito di alcuni controlli a tappeto, in quanto sarebbero emersi dei casi positivi in questo reparto nei giorni precedenti. Alberto era risultato negativo in quel controllo, ma non l'altro degente in stanza, subito spostato in un reparto Covid anche se ormai – a detta dei parenti – era troppo tardi per evitare il contagio. Diversa, però, è la ricostruzione dell'Ausl, secondo cui l'altro degente non sarebbe stato positivo al Coronavirus, mentre tra i contatti più stretti del paziente lo erano alcuni famigliari di Dirani a cui è stato consentito di essere presenti durante la degenza pur con le necessarie protezioni. Dall'Ausl si parla anche di un quadro già molto compromesso, tanto che il ricovero in ospedale era di fatto “in stato vegetativo”.  

“Invalido e allettato, incapace anche solo di prendere in mano un oggetto. Mio padre, che è stato tenuto per una settimana in stanza con un uomo che tossiva e sputava l’anima, uno che, secondo il protocollo, ancor prima che il risultato di un tampone lo certificasse, doveva essere tenuto in isolamento”, lamenta la figlia. Per Deborah, infine, anche la sofferenza per un epilogo purtroppo già raccontato da molti altri parenti in quest'epidemia: non poter vedere il proprio caro nelle fasi finali della sua vita e poi poter posare un fiore solo su una bara già chiusa. Una situazione che rende ancora più crudo il senso di privazione, non essendoci quegli ultimi momenti di mediazione in cui ci si accomiata per l'estremo saluto davanti a una salma composta. “Ho maledetto quel protocollo che mi faceva guardare con invidia i parenti di altri morti entrare in delle stanze con le bare aperte, prendendosi il tempo di venire a patti con quei corpi senza più vita”.

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