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Cronaca Lugo

La notizia della serata di "rara inumanità" quel giorno circolò tra centinaia di giovani in un "coro muto"

Le indagini sono andate avanti a lungo e gli inquirenti non si sono fermati a quella che poteva essere la qualificazione più ovvia del reato, vale a dire l'omissione di soccorso

“Rara inumanità”, due parole pesanti come macigni: sono quelle usate dal gip Galanti per definire il comportamento scellerato dei 4 amici che – secondo l'ordinanza di custodia cautelare di circa 160 pagine – causarono la morte del loro giovane compagno di “sballo”, Matteo Ballardini. Le indagini sono andate avanti a lungo e gli inquirenti non si sono fermati a quella che poteva essere la qualificazione più ovvia del reato, vale a dire l'omissione di soccorso. Invece, con un lavoro certosino su vari indizi e riscontri, il reato è stato formalizzato nell'omicidio aggravato e volontario.

In sostanza, per gli inquirenti “Balla” non fu soltanto “lasciato morire”, ma con una serie di azioni ritenute volontarie (spegnere il telefono della vittima, chiudere a chiave la macchina, parcheggiare l'auto in posti defilati, oltre a non comporre mai quei tre numeri sulla tastiera del telefono, 118, che avrebbero potuto salvargli la vita) hanno contribuito a quel decesso, assumendosi il rischio di una situazione che facilmente si intuiva potesse degenerare nell'epilogo peggiore, come poi accadde. Perché tutto questo? Per gli inquirenti per non palesare alle forze dell'ordine il loro consumo di sostanze stupefacenti, o semplicemente per non interrompere una “serata di sballo”. Alcuni degli “amici”, se questo è il termine che si può continuare ad usare, passarono addirittura intorno a mezzogiorno del giorno dopo per vedere che cosa succedeva in quell'auto, e anche in quella circostanza non balenò a nessuno la seppur tardiva idea di mandare sul posto un'ambulanza.

Eppure la voce di quanto era avvenuto in quella notte folle si era già ampiamente sparsa per Lugo e circondario. L'ordinanza parla di “coro muto”, intendendo non certo un contesto di omertà dei possibili testimoni, che hanno hanno tutti collaborato attivamente, ma per indicare – spiegano gli inquirenti – la diffusione della notizia attraverso i canali tipici dei giovani: le chat, i social network, i messaggi. La Polizia ha ricostruito parte di questo scambio fitto che avvenne tra i giovani lughesi quel giorno, accendendo anche brevi bagliori sulla verità, per come veniva raccontata in quel “tam tam”. I riscontri oggettivi su testimonianze, filmati di videocamere e tracce dei telefonini, hanno fatto il resto.

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