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Cronaca Bagnacavallo

Omicidio Elisa Bravi, 24 anni al marito reo confesso. "Pena troppo mite per il sacrificio di una giovane donna"

Il pubblico ministero aveva chiesto la condanna all'ergastolo senza attenuanti. La Corte d’Assise ravennate ha invece riconosciuto al reo le circostanze attenuanti generiche

La pena assegnata all'assassino di Elisa Bravi, la 31enne uccisa nella sua abitazione di via Aguta a Glorie di Bagnacavallo nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 2019, non è abbastanza, almeno secondo l'associazione antiviolenza ravennate Linea Rosa e il Coordinamento regionale dei Centri Antiviolenza, compresi quelli di Lugo e Ravenna. Il marito della donna, Riccardo Pondi, a inizio luglio è stato condannato in primo grado a scontare 24 anni di carcere. L'uomo aveva confessato subito l'omicidio, telefonando alle forze dell'ordine e raccontando ciò che era successo al culmine di una lite familiare.

La perizia psichiatrica aveva escluso l'infermità mentale dell'uomo e il pubblico ministero aveva chiesto la condanna all'ergastolo senza attenuanti. La Corte d’Assise ravennate ha invece riconosciuto al reo le circostanze attenuanti generiche (ravvisate, sostanzialmente, nell’asserito pentimento, nella corretta condotta processuale, nell’incensuratezza e nel fatto che, nel corso del processo, egli avesse donato i propri beni alle figlie) e le ha ritenute equivalenti a tutte le aggravanti contestategli (lo status di coniuge della vittima, la violenza assistita alle figlie minori, la minorata difesa della vittima, perché l’aggressione avveniva di notte, in luogo isolato). Per effetto del bilanciamento, la pena dell’ergastolo è stata ridotta a ventiquattro anni di reclusione.

"Da subito la sentenza ci aveva sorprese per la mitezza della pena - commentano dal Coordinamento regionale dei centri antiviolenza - 24 anni di reclusione a fronte di quella, edittale, dell’ergastolo. Al di fuori dei tecnicismi giuridici che intervengono nel calcolo della pena, non riteniamo condivisibile che un femminicidio consapevole e volontario, così come riconosciuto dalla Corte d’Assise, possa essere punito con soli 24 anni di reclusione. Dov’è il sacrificio della vita di una giovane donna e delle sue figlie orfane? Non crediamo che l’enorme sofferenza di due bambine in tenera età, nel vedere la propria madre morire, strozzata dalle mani del padre, possa esse ritenuta, anche solo ai fini della pena, equivalente al pentimento del padre, vero o presunto che sia, alla buona condotta processuale. Per la Corte d’Assise questo femminicidio sarebbe conseguenza della rabbia del marito, dovuta alla “compromissione della quiete familiare”. Compromissione che lo stesso, preso da cieca ed ingiustificata gelosia, imputava vanamente alla moglie. La morte sarebbe dovuta, secondo le motivazioni della sentenza, alla carica di rabbia di quest’uomo, derivata dalla resistenza della moglie alle proprie insistenze ed esacerbata dallo sfogo verbale di quest’ultima. Avremmo voluto che si andasse alle radici della rabbia provata dall’assassino che, come tutti gli autori di femminicidio, non tollera che la compagna sfugga al controllo e non si subordini, nè si pieghi ai propri bisogni. La narrazione della responsabilità del femminicida ci appare sfumata nelle motivazioni della sentenza. Il rischio è quello di lasciare ricadere le ombre della violenza maschile su colei che quella violenza subisce, fino a morirne".

"Il “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria”, approvato il 17 giugno scorso dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, ha denunciato la sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene letta correttamente nelle aule di giustizia - fanno notare - I nostri centri antiviolenza accolgono, ogni anno, centinaia di donne vittime di violenza. Sappiamo quanto sia importante non perdere fiducia della rete, per uscire dalla violenza. Il ruolo della giustizia è fondamentale nel mantenere questa fiducia".

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