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Cronaca

Un viaggio onirico tra gli orrori delle bolge e la paura del presente: andate tutti all'"Inferno"

Inferno non è solo uno spettacolo: è un atto corale, una recita collettiva in cui tutti sono parte involontaria di un qualcosa di più grande, un viaggio dentro voi stessi che vi farà venire voglia di rileggere la Divina Commedia dall'inizio alla fine

Il giornalista è colui che trascrive a parole ciò che vede e succede intorno a lui. Eppure non è facile trovare le parole per descrivere "Inferno". Perchè Inferno non è solo uno spettacolo: è un atto corale, una recita collettiva in cui tutti sono parte involontaria di un qualcosa di più grande, un viaggio dentro voi stessi che vi farà venire voglia di rileggere la Divina Commedia dall'inizio alla fine.

"Vita... Oscura... Smarrita". Una splendida Ermanna Montanari di bianco vestita apre le porte del sepolcro del sommo poeta. Siamo immersi in un silenzio inverosimile, trovandoci nel ristretto spazio della zona del silenzio circondati da un'ottantina di "spett-attori" che, rompendo il sacro silenzio e guidati da un "Virgilio fantasma", iniziano a recitare emozionati le prime terzine della Divina Commedia. Spesso la fretta e la quotidianità spingono i ravennati a passare davanti a questo luogo solenne dimenticandosi della sua sacralità, e ora vederli così presi ed estasiati risveglia una magia assopita. Ermanna e Marco Martinelli si alternano nel ruolo di Dante, coinvolgendo il pubblico che non solo parla, ma imita rapito con gesti corali i versi infernali. E poi ecco, all'improvviso ci si inizia a muovere: parte il corteo guidato dalla coppia di attori-Virgilio che conduce questa "folla di dannati" verso Sant'Apollinare Nuovo. Ognuno di noi in questo momento è Dante, e la splendida Beatrice è una visione lucente in forte contrasto con ciò che ci aspetta all'interno del teatro Rasi. Ed è proprio quando si mette piede nel teatro che tutto improvvisamente sprofonda nella fossa infernale. Nel buio più totale guerrieri in abiti militari si muovono concitatamente, urlano, saltano, si buttano addosso al pubblico, divenuto ormai attore inconsapevole e ostaggio di questo esercito. In questo spazio claustrofobico in cui ci guardiamo terrorizzati, avendo davvero smarrito la retta via, un meraviglioso Roberto Magnani diviene un moderno Caronte recitando la parte del comandante Renaud di "Venezia Salva". E' un dittatore crudele, spietato, e a ogni suo sguardo di ghiaccio la sensazione è quella di essere prigionieri senza via di scampo.

Da qui, infatti, parte la nostra "deportazione", un viaggio onirico che permette - anzi, costringe - l'esplorazione del teatro in ogni suo angolo, con uffici trasformati in antri infernali e corridoi brulicanti di diavoli che trasportano noi dannati da un girone all'altro di questo Inferno, un perfetto equilibrio tra quello sacro e inviolabile della Divina Commedia e quello contemporaneo fatto di dittature, totalitarismi, terrorismi e paure represse. Sono sensazioni contrastanti quelle che si provano scendendo all'Inferno: siamo tutti a bocca aperta, stupiti per la verosimiglianza con ciò che al liceo abbiamo letto nei libri immaginandoci poi nelle nostre teste. Ma siamo anche intimoriti, perchè mai avremmo creduto di vivere davvero questo luogo di pena e di eterna condanna. Al centro del teatro avari e prodighi combattono tra loro in nome del vil denaro, Paolo e Francesca cercano inutilmente di opporsi al loro amore lussurioso, mentre dall'alto del soppalco le Erinni inveiscono contro noi condannati. Viene naturale chiedersi: toccherà a me ora essere giudicato? Per quale peccato verrò condannato? Quale sarà il mio castigo perenne?

Il viaggio continua, stretti l'uno all'altro come su di una barca scendiamo nelle bolge più profonde navigando lo Stige. Dopo il dittatore in odor di fascismo, ora è il comunismo a essere condannato tra un imperiale Farinata degli Uberti che tanto ricorda Breznev e uno struggente Gianni Plazzi - Cavalcante, che cerca il figlio Guido tra la folla a cui chiede, in lacrime e con la voce spezzata, "perchè non l'accompagni". Il sodomita Brunetto Latini si trasfigura in Pierpaolo Pasolini e un fraudolento Ulisse costringe gli spettatori a rivolgere lo sguardo verso l'alto. Siamo traghettati da un'emozione all'altra, giudichiamo in attesa di essere giudicati, verso la nostra inevitabile fine. Nel nostro viaggio incontriamo un Cardinale corrotto che ci offre dubbie caramelle, un viscido sfruttatore che cerca di venderci una splendida ragazza chiusa in gabbia e una donna alle prese con computer e tabulati che sembra perdere la testa di fronte al crollo delle sue azioni in borsa. Sono angosce reali, che viviamo tutti i giorni, che posteci di fronte con questa schiettezza crudele ci costringono ad analizzare noi stessi. Passando attraverso una moltitudine di "pazzi" ingabbiati in camice di forza che si contorcono e ci si lanciano contro sibilandoci nelle orecchie, arriviamo all'ultimo girone, il peggiore, quello dei traditori: ed è qui che troviamo il Conte Ugolino, imprigionato nel ghiaccio del lago Cocito e nell'irrevocabile legge del contrappasso, che raccontando la triste storia di come fosse stato costretto in vita a nutrirsi dei cadaveri dei suoi stessi figli costringe a far riflettere Dante, e quindi tutti noi, sulla correttezza della sua pena eterna.

Il gelido sbattere di ali che rende il Cocito ghiacciato si fa sempre più vicino: Lucifero è qui da qualche parte, e la sua presenza si respira in ogni angolo. Siamo congelati, paralizzati, diveniamo noi stessi Ugolino. La nostra fine si avvicina, sentiamo già sul collo il fiato di Belzebù. Ma il male assoluto ha un volto diverso per ognuno di noi, così nell'abside del teatro un'angosciante coppia di manichini sorridenti ed entrambi con il pugnale puntato sulla schiena dell'altro gira in un vortice tormentoso, accompagnata da un suono assillante che ci tormenta e ci sfinisce. Ma ecco: la quiete dopo la tempesta, l'uscita "a riveder le stelle" nel giardino, dove appoggiata a un albero troviamo una scala che ci condurrà fino al Paradiso. Qualunque dannato approfitterebbe dell'occasione e scapperebbe da questo Inferno, ma nessuno di noi si avvicina alla scala. Siamo ancora paralizzati nell'estasi di ciò che abbiamo appena vissuto, in un applauso circolare che pare un ulteriore cerchio infernale, da cui però poter riemergere con la certezza che la punizione inflittaci durante il percorso potrà renderci più consapevoli di noi stessi. Nessuno si augurerebbe di finire all'Inferno, ma ora che lo abbiamo toccato con le nostre mani, ora che ha esorcizzato le nostre paure più recondite costringendoci ad affrontarle di petto un po' ci siamo affezionati, e lasciarlo dietro di noi è difficile. Per cui a chi ancora non ha preso parte a questa altissima rappresentazione di letteratura, ma anche e soprattutto di vita si può fare un solo augurio: andate tutti all'Inferno.

Inferno al teatro Rasi


 

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