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Cronaca

Dalla Peste al Covid, la storia che si ripete. Eraldo Baldini: "Pandemia prevedibile, l'uomo paga l'aver voluto dominare la natura"

Partendo dal suo ultimo romanzo, lo scrittore e saggista ravennate ci offre una riflessione tra passato e presente, tra la Peste del Seicento e l'attualità del Coronavirus

Da oltre un anno l'argomento chiave e onnipresente delle nostre giornate, purtroppo, è il Coronavirus. La pandemia ha sconvolto le nostre vite e i nostri comportamenti con terribili ripercussioni non solo solo sulla nostra salute, ma anche sul piano economico e sociale. Una tragedia che nessuno di noi poteva prevedere. O forse no? 

Nel corso del 2019 era stato pubblicato il romanzo “La palude dei fuochi erranti” (edito da Rizzoli) dell'autore romagnolo Eraldo Baldini. In questa sua opera, lo scrittore-storico russiano tratta in maniera efficace e accurata il periodo della Peste del Seicento e i tentativi di arginare la diffusione dell'epidemia in Romagna. Il tutto intrecciato a un mistero apparentemente inestricabile ricamato con la maestria per cui Baldini è ormai noto. Ora, nel marzo del 2021, è stata annunciata l'uscita dell'edizione tascabile del suo romanzo. Abbiamo colto l'occasione per chiedere allo scrittore una riflessione tra passato e presente, tra la Peste e il Covid-19.

Baldini, il suo libro “La palude dei fuochi erranti” è stato pubblicato prima che scoppiasse l’emergenza mondiale del Coronavirus, eppure appare più attuale che mai, quasi profetico. Riflettendoci a posteriori, quanti sono gli aspetti comuni tra il periodo della Peste e il nostro presente? 
Partiamo dalle differenze: se nell’Età Moderna (dunque nel Cinque, Sei e Settecento), il periodo in cui ho ambientato il mio romanzo, le epidemie erano multiformi e frequenti, a causa anche delle condizioni di vita (igiene, alimentazione, situazioni abitative, promiscuità con gli animali allevati, ampia presenza di parassiti dell’uomo come pulci e pidocchi) e dell’arretratezza della medicina, oggi possiamo dire che, perlomeno nei Paesi sviluppati, lo scenario è molto diverso. Ed è anche per questo che l’impatto con una pandemia è stato per molti inaspettato e sconvolgente. Ma la cosa non era inaspettata per gli “addetti ai lavori”, i quali ammonivano che la domanda non doveva essere “se”, ma solo “quando” un nuovo e serio contagio si sarebbe diffuso, grazie ai costanti e veloci traffici, scambi e comunicazioni fra le varie aree del pianeta e forse anche a causa del sempre più grave deterioramento, per responsabilità dell’uomo, dell’ambiente e del clima. Non occorreva dunque essere “profeti” per ipotizzare il manifestarsi della realtà che stiamo drammaticamente vivendo, ma solo essere attenti alle voci degli scienziati e alla possibilità dei “ricorsi storici”.

Tra le pagine del suo libro si leggono termini a noi oggi molto familiari: nuovi casi di contagio, cordoni sanitari, quarantene... Insomma, dal Seicento a oggi sembra sia cambiato poco o nulla. L’umanità è, ora come allora, inerme di fronte alle epidemie?
L’umanità ha sopravvalutato la propria capacità di “controllo” della natura, che ha voluto trasformare quasi in un “dominio”, illudendosi che ciò fosse possibile e indolore. Ma i risultati di questo errore e di questa presunzione (visibili non solo nelle difficolta di arginare la pandemia, ma in tanti altri guai e disastri) a un certo punto si palesano e si pagano. Oggi, diversamente dal passato, da una parte abbiamo certamente più armi a disposizione per affrontare le epidemie: i vaccini in primo luogo, i farmaci, i moderni ospedali. Ma ciò che sta accadendo dimostra che, di fronte a un nemico invisibile e potente, bisogna ricorrere ancora - anzi ancora di più, vista la maggiore quantità e densità di popolazione e il maggior numero di interscambi anche su grandi distanze - ad accortezze rimaste uguali nei secoli: distanziamento, cordoni sanitari, limitazioni, quarantene che l’odierna economia globalizzata patisce ancor più di quella di un tempo. Prima ancora di scrivere il romanzo avevo, insieme ad Aurora Bedeschi, dato alle stampe un saggio storico, “Il fango, la fame, la peste. Clima, carestie ed epidemie in Romagna nel Medioevo e in Età moderna” (edito da Il Ponte Vecchio), una ricerca con cui avevo approfondito questi aspetti, e credo che la conoscenza del passato e del suo ciclico ripresentarsi potrebbe essere utile anche per interpretare il presente.

Nel suo romanzo lei pone una domanda: “Potevano un argine o una riga tracciata su una mappa fermare l’avanzata della malattia?”. Cosa risponderebbe oggi a quella stessa domanda?
Relativamente alla terribile epidemia di peste del 1630, quella di manzoniana memoria scenario del mio romanzo, voglio ricordare un fatto: il Commissario apostolico Gaspare Mattei, incaricato di dirigere da Faenza le operazioni di “prevenzione” sui territori romagnoli, in qualche misura riuscì nel suo intento, perché il diffondersi della peste, che aveva decimato e stava decimando la popolazione altre parti del Paese e dell’Europa, risparmiò la maggior parte della Romagna, limitandosi a infierire nell’imolese e in quella che oggi chiamiamo Bassa Romagna, non toccando le maggiori città (Ravenna, Forlì, Cesena, Rimini furono esenti o solo minimamente sfiorate dal contagio). La storia dei quei giorni ci dice che i cordoni sanitari tracciati dal Mattei, e fatti rispettare anche con mezzi molto drastici, ebbero forse una vera funzione di contenimento (anche se il “forse” è d’obbligo, di fronte a fenomeni tanto complessi). Ciò per dire che le misure precauzionali non vengono suggerite a caso, uguali nei secoli: se osservate scrupolosamente, possono avere certamente un loro effetto, pur non potendo rappresentare, soprattutto nella società moderna, “la” o l’unica soluzione.

Un altro aspetto interessante del suo romanzo è quello della violazione delle restrizioni. Sembra che allora, come oggi, la paura del morbo si scontrasse con interessi ed esigenze personali. Le dinamiche non sono cambiate dopo quasi quattrocento anni?
È vero, anche questa è purtroppo una “costante”: succedeva e ancora succede che gli interessi della comunità vengano da qualcuno messi in secondo piano rispetto a quelli personali. Fermo restando che la tentazione della “trasgressione” non deriva solo da menefreghismo o avidità, ma anche dal bisogno di non soccombere di fronte alle ricadute economiche ed esistenziali delle limitazioni (per questo è tanto più necessario e urgente l’intervento dei “ristori” o comunque vogliamo chiamarli), c’è da osservare che tale tentazione o propensione non è mai mancata, anche se le forme odierne, all’epoca dei mass e dei social media, assumono forme diverse. Inoltre, se è decaduto fin quasi a scomparire il concetto della “punizione divina” o dell’intervento stregonico e diabolico magari attraverso l’azione degli “untori”, sono nate e attecchiscono nuove forme di “credulità” o, al contrario, di incredulità preconcetta nei confronti della scienza. 

Tornerà ad ambientare una storia a Lancimago, magari in un periodo successivo alla Peste?
Non lo so. Al momento il mio obiettivo è di portare a compimento alcune ricerche finalizzate alla scrittura di saggi. Tornerò alla narrativa se e quando avrò un’idea che vale la pena sviluppare.

A quando una sua nuova pubblicazione?
A giorni. Entro il mese di marzo uscirà infatti in libreria un saggio, edito da Il Ponte Vecchio, che ho scritto insieme a Marco Galaverni, ricercatore dell’Università di Bologna e del WWF Italia. Il titolo del libro è “Uomini e lupi in Romagna e dintorni. Realtà e mito, attualità e storia”: un volume che vuole ripercorrere, nel momento in cui il lupo da noi sta tornando anche in pianura, le forme di un rapporto non sempre facile e le varie declinazioni del lupo nella nostra storia e nella nostra cultura popolare.

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