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Cronaca

Ravenna su Sky con “Grasso ma non troppo”

E’ dedicata a Ravenna, Cervia e Comacchio la puntata della trasmissione televisiva “Grasso ma non troppo” che andrà in onda venerdì alle 21 su Marcopolo (canale 414 di Sky)

 E’ dedicata a Ravenna, Cervia e Comacchio la puntata della trasmissione televisiva “Grasso ma non troppo” che andrà in onda venerdì alle 21 su Marcopolo (canale 414 di Sky). “Grasso ma non troppo” è un viaggio nei sapori e nelle bellezze italiani condotto dall’antropologo alimentare Sergio Grasso, che si autodefinisce “gastrosofo”, seguace di una disciplina secondo la quale per conoscere bene un Paese bisogna “sedersi a tavola ed assaggiare”.

La puntata romagnola toccherà a Ravenna la basilica di San Vitale, i mausolei di Galla Placidia e Teodorico, la tomba di Dante, i chiostri francescani, le vie del centro storico, l’atelier della mosaicista Anna Fietta, la Ca’ de ven tempio di piadina e cappelletti e il negozio di frutta e verdura di via IV Novembre. A Cervia saranno protagoniste le saline e a Comacchio le anguille.

Grasso, antropologo alimentare esperto di storia dell’alimentazione e autore/conduttore del programma, ritiene fondamentale parlare dell’Esarcato Ravennate rappresentato nei due set, anche come momento fondante della cultura gastronomica Italiana e più specificatamente Romagnola. L’alimentazione bizantina del VI, VII secolo è erede della tradizione ellenistico-romana, pur senza esserne un’imitazione.

Il pane era l’alimento principe della dieta. La farina si ricavava, a partire dal VII secolo d.C., dal grano duro (tricinum durum) e si accompagnava generalmente a un pappone di cereali, una sorta di polenta (puls) con farro, frumento e orzo già molto consumata nell’Impero Romano. Oltre a questi erano conosciuti la segale e il miglio, mentre l’avena comparve soltanto nel Peloponneso, durante la dominazione franca.

Nell’alimentazione bizantina al grano seguivano i legumi: lenticchie, ceci, piselli e soprattutto fave. Una buona varietà verdure integrava la dieta: cavoli, cipolle, carote, agli, zucche, lattughe e porri. La frutta ci viene descritta dal poema vernacolare tardo Porikologos: in esso s’immagina una corte in cui i membri e dignitari sono frutti e verdure, con mela cotogna (re dei frutti), limone, pera, mela, ciliegia, prugna, fico, pesca, albicocca, melone, cedro, melograno, more...

La frutta cotta con miele e spezie faceva da contorno ai piatti di carne, e molto apprezzata era anche la frutta secca, che entrava nei dolci: noci, mandorle, datteri, castagne e pistacchi. Il vino, dopo il pane, era un altro alimento fondamentale, tanto che era compreso perfino nelle razioni degli operai (ovviamente non quello di prima qualità). I più poveri potevano, in mancanza di meglio, accontentarsi di acqua e aceto. L’importanza economica del vino fu enorme, tanto che le viti venivano piantate ovunque,. Come nel costume greco-romano, i vini erano diluiti con l’acqua prima di essere consumati.

Quando il console Paolo Emilio nel 187 a.C. fece costruire la via Emilia per consolidare il dominio di Roma, i viaggiatori ammiravano già i fiorenti vigneti, e il vino dell’area veniva apprezzato dai ceti agiati della capitale. Plinio celebra più volte le virtù del “Trebulanus” (trebbiano) e della Lambrusca, attribuendo a quest’ultima virtù medicinali, e giudicando i vini di Cesena tra i più generosi. Leggenda narra che nel 435 d.C. l’imperatrice Galla Placidia, di passaggio in quelle zone, bevendo un calice di Albana (altro vitigno della regione) abbia esclamato: “Vorrei berti in tazza d’or”, di qui il nome del paese Bertinoro, luogo ancora oggi della maggiore produzione di questo vino. Frequente era l’aggiunta di altre sostanze, dal miele alle spezie.

Una volta appresa la tecnica di distillazione comparirono i liquori, la cui presenza è attestata alla corte di Costantinopoli intorno al XI secolo; tra essi dovevano figurare anche gli antenati dell’odierno Mistrà. La birra, a differenza dell’enofilo mondo romano, era molto diffusa, in quanto eredità di una tradizione millenaria del Medio e Vicino Oriente. Alla corte ravennate la cucina era intesa come arte combinatoria, perché erano pochissimi gli alimenti (es. pane) a cui si attribuiva una natura perfettamente equilibrata.

Nella stragrande maggioranza dei casi si riteneva necessario un intervento correttivo: bollire in acqua le carni secche per aggiungergli liquido, o arrostire i cibi umidi per prosciugarli. Fu seguendo precise regole di abbinamento che entrarono nell’uso quotidiano: formaggio (caldo/secco) con pere (freddo/umido), prosciutto (secco) con melone (umido). In questo quadro rientrava anche l’attenzione per le salse, che opportunamente affiancate alle carni e ai pesci, avevano lo scopo di equilibrare le vivande rendendole sia digeribili che gustose.

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