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Suono ma nessuno apre

Suono ma nessuno apre

A cura di Matteo Fabbri

Il pop che combatte pregiudizi e omofobia senza mai essere "pesante"

Qualcuno ha saputo sensibilizzare le coscienze con la potenza delle parole, altri invece hanno passato il messaggio usando le immagini, ad esempio tramite i videoclip o con l’utilizzo di un’estetica forte

L’articolo inaugurale di questo blog, che uscì ormai due anni fa, lo incentrai su “Smalltown Boy”, clamoroso pezzo dei Bronski Beat, targato 1984, il cui impatto è stato (ed è ancora oggi) devastante. Oltre all’enorme valore dal punto di vista musicale, infatti, quel brano trainava con sé un forte messaggio contro l’omofobia e in favore dei diritti per le minoranze sessuali. Ne avevo voluto scrivere per dimostrare come anche artisti pop dalle sonorità ballabili, e dalla patina all’apparenza colorata, abbiano saputo trattare temi importanti, senza dover avere necessariamente un’aria seriosa.

Oggi, a due anni da quello speciale, ho deciso di tornare sull’argomento (del resto, giugno è il “mese del Pride”), facendo stavolta una rapida carrellata di musicisti pop dello stesso periodo che hanno contribuito ad abbattere alcune barriere sociali. Da chi ha solo fatto qualche allusione velata senza uscire allo scoperto, a chi si è imposto coi fatti (gli stessi Bronski Beat erano dei veri e propri militanti politici). Qualcuno ha saputo sensibilizzare le coscienze con la potenza delle parole, altri invece hanno passato il messaggio usando le immagini, ad esempio tramite i videoclip o con l’utilizzo di un’estetica forte. Ho scelto anche in questo caso di rimanere negli ‘80s perché credo siano stati, in un certo senso, uno spartiacque per le tematiche LGBT+.

A questo link è possibile ascoltare l'episodio del podcast

I primi che mi vengono in mente sono due figure importanti non tanto per i testi (comunque a volte impegnati), quanto piuttosto per il look fuori dagli schemi, attraverso il quale in pratica ti dicevano “vestiti come ti pare, non avere paura, gira come vuoi, fregatene di tutto”. Vi ricordate, ad esempio, di “You Spin Me Round”, pezzo dal tiro pazzesco dei Dead Or Alive? Ecco, quella band deve le proprie fortune al leader, Pete Burns: androgino, eccentrico, con una presenza scenica pazzesca e uno dei primi gender-bender in musica, ovvero quelli che in qualche modo rifiutavano le convenzioni previste dal proprio genere sessuale.

L’acerrimo rivale di Burns è un’altra star fondamentale: Boy George. Questi divenne celebre giovanissimo non solo per la grande voce e le canzoni orecchiabili, ma anche per la stravaganza nel vestire e nel truccarsi. Nei primi anni ‘80 la sua immagine era scandalosa per l’opinione pubblica, e ci voleva anche un certo coraggio per portarla avanti. Del resto, un conto era vestirsi in quel modo nei club di Londra, un altro di fronte alle telecamere di mezzo mondo. Eppure, a distanza di pochi giorni dalle sue prime apparizioni TV, tutti volevano agghindarsi come Boy George (ragazze e ragazzi, senza distinzione). Inoltre la sua band, i Culture Club, si chiamava così per un motivo ben preciso: erano un gruppo orgogliosamente multi-culturale e multi-razziale, e ogni componente proveniva da una diversa estrazione sociale.

Passiamo ora ai Soft Cell, fautori di musiche notturne, ipnotiche e sensuali. Il leader, Marc Almond, è stato un’icona e ha sempre combattuto perché l’omosessualità non venisse accostata, come in tanti facevano, alla pedofilia. Nei propri testi affrontava esplicitamente argomenti delicati e poco conosciuti, come il travestitismo, la tossicodipendenza, la prostituzione e le relazioni disturbate.

Ci sono poi i chiacchieratissimi Frankie Goes To Hollywood, autori della bomba “Relax”, che dovette vedersela con la censura dei media inglesi. In radio la BBC decise di non trasmettere il brano (se non nelle ore notturne); allo stesso modo il video venne bandito in TV. Addirittura lo storico programma “Top Of The Pops” ogni volta in cui doveva lanciarlo, invece di trasmetterlo, passava un altro brano a caso. Nonostante i divieti, il brano raggiunse comunque la prima posizione, diventando una hit planetaria e canzone simbolo dell’omosessualità. I Frankie Goes To Hollywood sono stati sicuramente tra gli emblemi nella lotta contro le discriminazioni, anche perché lo fecero in maniera esplicita e furono tra i primi a dichiararsi apertamente.

I nomi sarebbero tanti, ma voglio concludere questa mini rassegna con i più raffinati, intellettuali e letterati del lotto. Uno dei duo più famosi di sempre: quello composto da Neil Tennant e Chris Lowe, in arte i Pet Shop Boys. Loro sono sempre stati contrari all’etichetta di “gruppo gay” perché lamentavano il fatto che fosse ghettizzante, come se significasse fare musica diretta solo a una fetta di persone, mentre il loto pubblico era molto trasversale. Nella stesura dei testi hanno sempre giocato sull’ambiguità, con temi che avessero appeal per l’audience gay, ma in cui allo stesso tempo potessero ritrovarsi anche gli etero. Nei video, parte integrante del loro immaginario, appaiono poco e non sono mai protagonisti, preferendo stare in disparte, come a voler fungere da osservatori esterni alla realtà che di volta in volta vogliono raccontare.

Insomma, ci sono tanti libri sulla storia della musica, ma pochissimi che trattano l’estrema influenza dei musicisti LGBT+, come alcuni di quelli citati in questo articolo: personaggi che dietro quel velo sgargiante e vivace portavano un pensiero universale di rispetto e uguaglianza, cercando di facilitare il compito alle generazioni successive…

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