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Lunedì, 29 Aprile 2024
Suono ma nessuno apre

Suono ma nessuno apre

A cura di Matteo Fabbri

Era il preferito di Lucio Battisti, ma oggi è dimenticato: riscopriamo Enzo Carella

La storia della musica italiana è piena di “geni incompresi”: artisti che non sono riusciti a rimanere impressi nella memoria collettiva, nonostante abbiano contribuito a dare una sterzata alla nostra tradizione

La storia della musica italiana è piena di “geni incompresi”: artisti che non sono riusciti a rimanere impressi nella memoria collettiva, nonostante abbiano contribuito a dare una sterzata alla nostra tradizione, svecchiando la canzone italiana e infondendole un taglio più internazionale. Oggi ve ne voglio segnalare uno. E l’impulso per provare a raccontarlo arriva da un Festival di Sanremo, quello del 1979, considerata tra le edizioni più strambe di sempre per via di una line-up molto particolare che, tra gli altri, comprendeva anche un soggetto che sembrava piombato lì direttamente dal futuro. Ma non perché fosse travestito da robot o usasse strumentazioni aliene. Nulla di tutto ciò. Semplicemente perché proponeva un cantautorato diverso da quello a cui l’Italia era abituata. Un qualcosa che, a posteriori, influenzerà un sacco di artisti. Tanto che ancora oggi si sentono discepoli che in qualche modo ricalcano alcune sue peculiarità, copiandone le trovate e cercando di farne rivivere le idee. A volte pure con più successo rispetto a quello che (non) ha avuto lui.

Sanremo 1979, dunque, Teatro Ariston: dietro le quinte c’è un ragazzone alto, ben piazzato, moro, capellone, coi baffetti da sparviero e uno sguardo da furbetto, che però non riesce a celare l’emozione. Del resto, è ancora praticamente sconosciuto al grande pubblico, eppure sta facendo il suo ingresso sul palcoscenico più importante del Paese. Mancano pochi minuti all’esibizione quando da uno stanzino si sente una voce “Enzo, Enzo! Vieni un attimo, ti cercano al telefono”. Qualcuno aveva chiamato alla linea fissa del centralino dell’Ariston, chiedendo di parlare con lui. Questo Enzo, un po’ scombussolato, alza la cornetta e dall’altra parte sente “Ciao, sono Lucio, Lucio Battisti, non ci conosciamo di persona, ma volevo farti l’in bocca al lupo per stasera”. Enzo, frastornato, ringrazia sentitamente, poi riaggancia e si accinge a entrare in scena. A chi è che Lucio Battisti aveva appena augurato buona fortuna? A un personaggio di culto: il magico Enzo Carella.

A questo link è possibile ascoltare l'episodio del podcast

A questo punto la domanda sorge spontanea: cos’aveva di così particolare questo Carella per stregare a tal punto un palato fine come quello di Lucio Battisti? Semplice, rappresentava un unicum nel panorama italiano, perché proponeva sonorità particolari e innovative: una miscela tra progressive, cantautorato, accenni di jazz, un pizzico di Sudamerica e la black-music fatta di funky e disco. Era una sorta di “pop- funk” di stampo mediterraneo, con la melodia sempre al centro e grandissimi arrangiamenti. Canzoni raffinate e piene di sorprese, che stupiscono nota dopo nota. Carella voleva dimostrare che il pop poteva essere anche ricercato e per farlo si era circondato di strumentisti dal valore eccelso (pensate che nel primo disco al suo fianco c’erano praticamente tutti i Goblin: sì, quelli di “Profondo Rosso”). Ma egli stesso era un abilissimo chitarrista, di grande gusto. In più, a caratterizzare la sua cifra stilistica, era anche il timbro vocale: una voce sussurrata, ipnotica, a tratti ironica, ma con una sfumatura di malinconia. Non era potente o in grado di raggiungere chissà quali vette, ma ammaliava, era sensuale e ti si insinuava dentro.

Sì, ok, va bene il sound innovativo e la voce così caratterizzante, ma siamo in Italia e spesso quello che conta di più sono le parole. Ecco, a scrivere i testi che vestivano le composizioni di Enzo Carella era un poeta di cui si innamorerà, anche in questo caso, sempre Battisti: l’ermetico Pasquale Panella, che si contraddistingueva per l’uso di giochi di parole e frasi non-sense con cui creava quadretti surreali e astratti. Non si trattava, quindi, né delle solite canzoni d’amore ma nemmeno di invettive politiche impegnate. Erano versi unici, tali da folgorare il suddetto Battisti che, dopo aver sentito questo binomio di musica e parole, decreterà due cose: in primis, che Carella era l’unico artista italiano che lo intrigasse veramente; in secondo luogo, che Panella sarebbe stato il suo futuro compagno di viaggio e paroliere al posto di Mogol.

Nonostante tutti questi pregi, Carella è rimasto sempre ai margini del mainstream, non conoscendo mai la vera popolarità, nemmeno dopo la morte avvenuta nel 2017. Ultimamente sembra esserci una piccola riscoperta, forse perché la sua voce e la sua musica risultano ancora oggi fresche: i suoi dischi usciti tra fine ‘70 e inizio ‘80 suonano così attuali che potrebbero tranquillamente essere stati pubblicati ieri. Se ci fate caso, il suo influsso si nota in tanti seguaci come Calcutta, i Nu Genea, Tiromancino, Tommaso Paradiso. Anche Colapesce, che non a caso lo ha tributato incidendo una cover di “Malamore”, così come ha fatto Riccardo Sinigallia.

Enzo Carella è stato un artista anomalo e brillante, una piccola leggenda italiana colpevolmente dimenticata troppo in fretta. Ma probabilmente a lui nemmeno importava di inseguire il successo a tutti i costi. Ha preferito continuare a fare la sua vita, bevendo, suonando la chitarra e componendo, per il solo gusto di farlo. Con la stessa genuinità che aveva quando da ragazzo venne scoperto da un produttore in una cantina della sua Roma mentre strimpellava le cover dei suoi idoli. Se vi ho incuriosito, mi permetto di consigliarvi qualche canzoni da ascoltare per entrare nel suo mondo variopinto. Le prime quattro che mi vengono in mente: “Malamore”, “Fosse Vero”, “Amara” e la struggente “Mare Sopra e Sotto”: suoni e parole davvero inebrianti...

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