Speranze e dolori sulle ‘Trincee del cuore’
L’attenzione per la musica popolare è un’altra fra le caratteristiche centrali di Ravenna Festival. Così in più edizioni si sono proposti, anche con preziosi recuperi, canti e composizioni che raccontano gioie e sofferenze, speranze e dolori della gente comune, non solo di eroi e ‘soldati a cavallo’. E si è cantato anche in trincea, fra rovi di filo spinato e baionette, nella prima Guerra mondiale: quegli uomini hanno alzato la propria voce quasi sempre in italiano, per la prima volta dopo l’unità politica della nazione. Ecco il senso del progetto ‘Le trincee del cuore’ con cui Ambrogio Sparagna torna al Festival, martedì 1 luglio alle 21, nello spazio appena ‘scoperto’ della pineta di San Giovanni (nei terreni Micoperi).
Canti italiani, ma non solo: integra e arricchisce lo spettacolo, infatti una serie di canti ungheresi, sloveni, austriaci e serbo?croati che, come quelli italiani, raccontano quel tragico momento della storia europea in modo originalissimo. Per ricordare, con il cuore, i giorni della trincea. Al fianco di Sparagna e dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, un ospite d’eccezione Peppe Servillo. Ai cori Amarcanto e Compagnia dell’Alba di Ortona si affiancheranno in alcuni momenti del concerto le voci dei bambini della città con il Coro Swing Kid’s della Scuola ‘Filippo Mordani’ diretto da Katia Gori e il Coro della Scuola ‘San Vincenzo De Paoli’ diretto da Simona Santini. La serata si arricchirà infine della partecipazione di Michele Carnevali che suonerà una preziosa ocarina ‘reduce’ dalla Grande Guerra.
Negli anni della Prima Guerra Mondiale gli italiani riconobbero se stessi nell’orrore e nella fiera e povera umanità delle trincee, dove per la prima volta si mescolarono dialetti, storie e anche musiche. Dai dispacci e dai canti, i soldati, provenienti dalle terre più remote dello Stivale, impararono l’italiano, una lingua fino ad allora conosciuta e praticata solo da una ristretta parte della popolazione del Regno. Dal volto del vicino, forse dalla sua voce spezzata o cantilenata, impararono la disumanità della guerra e la forza della pieta? e di una fraternita? vera.
A 100 anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, lo spettacolo ‘Le Trincee del cuore’ vuole raccontare gli echi dei tanti canti risuonati tra le pietre delle trincee e nel cuore di quegli uomini. Uomini semplici che cercarono conforto alla disumanità della guerra anche attraverso la voce e la forza della poesia cantata, dando vita, giorno dopo giorno, a un nuovo genere musicale originale. L’esperienza della vita in trincea favori? infatti la formazione di un originale ‘corpus’ di canti popolari caratterizzato da contenuti e modalità espressive specifiche. Si tratta di canti che narrano dell’atrocità della guerra, della fierezza del corpo di appartenenza, ma anche di amori lontani, di speranze, di ricerca di affetto filiale e anche di momenti di gioia quotidiana, ancor più desiderata. Sono infatti numerose le canzoni ironiche e goliardiche, cantate per esorcizzare la paura della morte sempre in agguato, cosi? come un ruolo importante svolgono i canti narrativi e quelli tipici dei cantastorie. Questa varietà di canti veniva eseguita prevalentemente in italiano. Non mancano pero? anche esempi in lingue dialettali fra i quali di grande rilievo alcuni in veneto, friulano, napoletano e siciliano. Di certo questo ‘corpus’ ha contribuito alla formazione di un grande e articolato patrimonio di canti popolari ancora diffuso in tutto il territorio nazionale. Lo spettacolo ‘Le trincee del cuore’ vuole proporre alcuni esempi di questo straordinario repertorio nazionale e regionale associando a essi letture poetiche di importanti autori dell’epoca. Integrano e arricchiscono lo spettacolo, anche alcuni canti ungheresi, sloveni, austriaci e serbo-croati che, come quelli italiani, raccontano quel tragico momento della storia europea in modo originalissimo.
Michele Carnevali suona l’ocarina della Grande Guerra. Si tratta dell’ocarina che suonava il soldato Giacomo Bagnari, classe 1898. Come avesse imparato non si sa. “So solo che – ricordava il figlio Mario – quando tornò dalla guerra, era stato sotto le armi dal 1917 al 1920, aveva con sé l’ocarina e già sapeva suonarla, forse l’aveva avuta da qualche compagno d’armi”. Così, dopo aver rotto il silenzio delle lunghe notti in trincea, e aver lenito le snervanti attese sul fronte, l’ocarina di Giacomo prese a risuonare nella campagna romagnola: “La portava sempre con sé, nei trebbi nelle case dei vicini o quando alla sera si ritrovava con gli amici nella camaraza a Boncellino, dove vivevamo, oppure quando durante la settimana rimaneva fuori a lavorare come scariolante, a Grattacoppa. A casa la suonava di tanto in tanto e la custodiva gelosamente nel cassetto del comodino”. Con tanta cura da averla fatta arrivare fino a noi, questa piccola terracotta dal colore ligneo, morbido, uscita dalla bottega di Giuseppe Donati di Budrio – l’inventore dell’ocarina, strumento “senza pretese” lo definisce Curt Sachs – diversa da tutte le altre, per quella inconsueta doppia imboccatura che le conferisce un’estensione amplissima, ben due ottave. Segnata dal tempo, ma ancora miracolosamente intatta: il suo suono dolce e caldo sembra quasi racchiudere in sé il respiro di tutti gli uomini che l’hanno ascoltata, dai braccianti sugli argini della bonifica ai soldati della Grande Guerra.